Recensione di "Stazione di sosta. Cronaca di un cancro" di Marco Neirotti, edizioni Interlinea Edizioni
Sono sempre stata spettatrice della malattia degli altri, spesso dal primo atto della commedia all'ultimo.
Quello conclusivo.
Quello finale.
Quello che schiaccia.
-Commedia- non è il termine adatto ma fa meno male che chiamarla -vita-.
La vita, la vita degli altri quella dei malati. Mi sono sempre chiesta: cosa provano quelli che stanno nel girone dei quasi morti, quelli che hanno già un piede posato nell'Aldilà?
-Aldilà-, che brutta parola. Aldilà di cosa? Sorvoliamo...
Questo libro, che ho deciso di acquistare e di leggere sapendo bene di rischiare, arriva in un momento particolare della mia vita. Diciamo in un momento in cui sono costretta a fare dei conti. Conti che non tornano e non perché io non sia brava in matematica. Certi conti non tornano mai.
Una lettura che rovescia, che frammenta, che ti fa diventare un mucchio di coriandoli e poi ti ricompone. Una scrittura magistrale, una finestra sulla vita che l'autore quasi dipinge su una tela che è la pelle. La sua pelle.
Neirotti canta a bassa voce, danza in punta di piedi, non vuole disturbare nessuno, sussurra al lettore parole di una verità crudele, spaventosa che inevitabilmente fa male. Spesso, però, la verità fa male. Neirotti mostra la via del cancro ma segnala anche una via d'uscita, lascia una luce in fondo al tunnel. Un racconto equilibrato, ricco di chiaroscuri, di paure confessate a tratti stemperate, d'ironia intelligente. A volte gli autori sembrano due: l'uomo malato che combatte insieme ai medici e agli infermieri bombardandosi di chemioterapia e quello che parla e lotta con se stesso per non cadere nello sconforto. Si combatte davvero il cancro? Davvero si diventa guerrieri o è solo una questione di fortuna, di resistenza alle terapie, di guarire da un cancro e trovarsene un altro tra le mani?
Un uomo che, da cronista inviato per fatti tragici come il terremoto dell'Aquila, si trova ad essere
cronista del suo terremoto. E anche questa volta lo fa con rispetto verso chi soffre, con umanità con tatto e dolcezza. Si può essere cronisti di se stessi senza cadere nel banale? Sì, se ti chiami Marco Neirotti.
Un libro da leggere, perché il tumore può appostarsi dietro l'angolo della vita di ognuno di noi. Il cancro deve spaventare, deve annientare ma non deve uccidere al momento della sua diagnosi. Questo è il messaggio che l'autore vuole trasmettere al lettore.
Sono tanti i passi di queste pagine che mi hanno colpita, uno in particolare: quando cerchiamo di rivedere la nostra vita passata, esattamente come si sfoglia un album di fotografie, a cosa pensiamo esattamente? A quello che abbiamo fatto o a quello che non abbiamo fatto ma che potevamo fare? Alle parole dette o a quelle non dette ma che potevamo dire? Alle scuse fatte o a quelle non fatte? Tendiamo sempre ad auto assolverci e invece come dice Neirotti: “Ci si può assolvere da quasi tutto, mai da tutto.”
Quello conclusivo.
Quello finale.
Quello che schiaccia.
-Commedia- non è il termine adatto ma fa meno male che chiamarla -vita-.
La vita, la vita degli altri quella dei malati. Mi sono sempre chiesta: cosa provano quelli che stanno nel girone dei quasi morti, quelli che hanno già un piede posato nell'Aldilà?
-Aldilà-, che brutta parola. Aldilà di cosa? Sorvoliamo...
Questo libro, che ho deciso di acquistare e di leggere sapendo bene di rischiare, arriva in un momento particolare della mia vita. Diciamo in un momento in cui sono costretta a fare dei conti. Conti che non tornano e non perché io non sia brava in matematica. Certi conti non tornano mai.
Una lettura che rovescia, che frammenta, che ti fa diventare un mucchio di coriandoli e poi ti ricompone. Una scrittura magistrale, una finestra sulla vita che l'autore quasi dipinge su una tela che è la pelle. La sua pelle.
Neirotti canta a bassa voce, danza in punta di piedi, non vuole disturbare nessuno, sussurra al lettore parole di una verità crudele, spaventosa che inevitabilmente fa male. Spesso, però, la verità fa male. Neirotti mostra la via del cancro ma segnala anche una via d'uscita, lascia una luce in fondo al tunnel. Un racconto equilibrato, ricco di chiaroscuri, di paure confessate a tratti stemperate, d'ironia intelligente. A volte gli autori sembrano due: l'uomo malato che combatte insieme ai medici e agli infermieri bombardandosi di chemioterapia e quello che parla e lotta con se stesso per non cadere nello sconforto. Si combatte davvero il cancro? Davvero si diventa guerrieri o è solo una questione di fortuna, di resistenza alle terapie, di guarire da un cancro e trovarsene un altro tra le mani?
Un uomo che, da cronista inviato per fatti tragici come il terremoto dell'Aquila, si trova ad essere
cronista del suo terremoto. E anche questa volta lo fa con rispetto verso chi soffre, con umanità con tatto e dolcezza. Si può essere cronisti di se stessi senza cadere nel banale? Sì, se ti chiami Marco Neirotti.
Un libro da leggere, perché il tumore può appostarsi dietro l'angolo della vita di ognuno di noi. Il cancro deve spaventare, deve annientare ma non deve uccidere al momento della sua diagnosi. Questo è il messaggio che l'autore vuole trasmettere al lettore.
Sono tanti i passi di queste pagine che mi hanno colpita, uno in particolare: quando cerchiamo di rivedere la nostra vita passata, esattamente come si sfoglia un album di fotografie, a cosa pensiamo esattamente? A quello che abbiamo fatto o a quello che non abbiamo fatto ma che potevamo fare? Alle parole dette o a quelle non dette ma che potevamo dire? Alle scuse fatte o a quelle non fatte? Tendiamo sempre ad auto assolverci e invece come dice Neirotti: “Ci si può assolvere da quasi tutto, mai da tutto.”
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