Recensione di "Un uomo solo" di Antonio Iovane Mondadori edizioni
"Sanremo, 26 gennaio 1967. La Riviera è pronta a ospitare il Festival della Canzone Italiana: i giornalisti già parlano di un'edizione rivoluzionaria, perché sul palco si sfideranno la vecchia guardia guidata da Claudio Villa e Domenico Modugno e le voci nuove, come I Giganti, Little Tony, Lucio Dalla. E Luigi Tenco. Tenco è più conosciuto come autore che come interprete ed è lì perché vuole che il grande pubblico impari ad apprezzarlo: ha deciso che d'ora in poi nelle sue canzoni parlerà di problemi sociali, di disoccupazione, di legge sul divorzio, di mafia, e vuole che tutti lo ascoltino, anche il pubblico delle canzonette, perché "le idee non valgono da sole, valgono solo se qualcuno le recepisce". Insieme a Dalida, la diva francese con cui ha avuto un'intensa ma breve relazione, canterà Ciao amore, ciao che racconta la grande emigrazione dalla campagna verso la città, una canzone orecchiabile ma impegnata. Mentre si avvicina il momento dell'esibizione, però, Tenco capisce che sta tradendo se stesso, che lui non ha nulla a che fare con quel mondo. È nervoso, beve, le ultime prove sono un disastro, e quando sale sul palco appare già rassegnato; l'esibizione è pessima, le giurie bocciano la canzone, che non viene nemmeno ripescata. La delusione lo rende furioso, non segue Dalida e gli amici della casa discografica al ristorante, torna in albergo. Alle 2,10 viene ritrovato morto, disteso sul pavimento della sua camera. Attraverso testimonianze e una meticolosa ricerca d'archivio, Antonio Iovane ricostruisce in un lunghissimo piano sequenza l'ultimo giorno di vita di Luigi Tenco ma anche le ore successive, quelle in cui si accavallano dichiarazioni terribili da parte di colleghi cantautori e giornalisti, quelle del più tragico e indegno "show must go on" che l'Italia abbia mai conosciuto. Un uomo solo non cerca di far luce sul presunto suicidio di Luigi Tenco, ma racconta con la forza immersiva del romanzo il tormento, le contraddizioni e i sogni di un artista fuori dal tempo."
Quella che vorrebbe essere una recensione.
Un libro che mi mancava.
Sapevo che mi mancava qualcosa per chiudere il cerchio, ma non sono mai riuscita a trovare il tassello mancante. Perché non è facile da bambini rimanere indifferenti mentre ti senti dire dalla maestra: «Ecco perché sei sempre così pensierosa, riflessiva, fuori dal coro e sai cantare e suoni la chitarra già alla tua età… sei nata quando è morto Luigi Tenco, si sarà reincarnato in te, sarà morto per te».
Perché quello che ti senti dire da bambino, soprattutto da chi per te è un’autorità, ti segna. Nel profondo, al centro, un po’ più a sinistra. E non è vero che crescendo poi le cose passano, scivolano e tutto si sistema. Lasciamo andare ciò che è facile allontanare da noi, il resto rimane lì ancorato che manco le cannonate lo smuovono di un millimetro.
E questo libro chiude davvero il cerchio e io, finalmente, ho lasciato andare l’angoscia, lo smarrimento e le parole di quella simpaticona della mia maestra.
Che poi chi sono io per dire certe cose? Non sono nessuno, è vero… ma davvero -qualcuno- può essere -qualcuno-? Perché se le parole hanno davvero un peso, se le parole sono così importanti, allora o nessuno di noi ha diritto a parlare o tutti abbiamo diritto di dire la nostra.
No, non è così. Esiste una sostanziale differenza tra chi parla e chi dice parole a caso. E la suddetta differenza trova ragione nel fatto che le parole hanno davvero un peso se reggono il filo del discorso, se formulano tutte insieme un concetto basato su una verità fondata che può essere provata. Altrimenti quelle sono parole date alle ortiche, parole sprecate che, però, possono fare tanto male, in quanto usano l’arma dell’inganno perché orfane dell’intelligenza. Perché le parole devono essere mani che offrono aiuto, devono essere appigli ai quali aggrapparsi per ritrovare noi stessi, per imparare la storia, per imparare a distinguere la verità da una sporca bugia. Se non lo sono allora sono solo parole dette da chi sa solo -fare- parole, ma non -pensare- parole.
Il cerchio su Luigi Tenco, per me, si chiude oggi che ho terminato la lettura di questo libro. Avevo bisogno di una conferma e Iovane me l’ha servita senza nemmeno saperlo, ovviamente. In fondo è questo che devono fare un libro e il suo autore: salvarci. Perché di Tenco si è parlato fino alla nausea: prendi il cadavere, sposta il cadavere, rimetti il cadavere dove lo hai trovato, mettilo nella cassa, porta la cassa al cimitero, riprendi la cassa e riportala qui, poi lì… apri la cassa, chiudi la cassa, studia il cadavere e poi ristudialo ancora.
E l’uomo? Mi sono sempre chiesta: ma l’uomo, dov’è?
Perché suicidio o non suicidio, colpevoli o non colpevoli, qui si trattava e si tratta di un uomo. Un uomo solo. Un uomo tormentato e solo. Un uomo che sognava e sognava da solo. Un uomo che amava e amava da solo. Un uomo che scopava e scopava da solo. Un uomo che (cazzo!) sapeva cantare, interpretare, suonare diversi strumenti, che sapeva scrivere, un uomo -studiato-, un uomo che sapeva fare… e che faceva da solo. Un uomo maledettamente solo. Persino bello, intrigante ma solo. Perché quello che ancora oggi (cazzo!) che ho 55 anni (tanti quanto Tenco da morto) ancora non comprendo è come non si riesca a dare l’importanza giusta alla solitudine. Lo sappiamo tutti: ci si può sentire soli anche tra milioni di individui. Piace a tutti questa frase. Ma quello che forse non sanno tutti è che sentirsi soli fa male. Pensare da soli fa male. Sentirsi soli indebolisce corpo e mente e spesso la solitudine toglie la forza di chiedere aiuto. Oppure fa commettere gesti estremi, oppure fa in modo che si diventi insopportabili, oppure… oppure. Bisogna avere la capacità di ascoltare e osservare il prossimo perché una persona sola la si riconosce. Ha lo sguardo di un cerbiatto impaurito.
Tenco era un uomo solo.
Con una penna elegante, con grande maestria Iovane ha scritto un gran libro. L’ha fatto con amore e rispetto.
Perché “Le idee non valgono da sole, valgono solo se qualcuno le recepisce.”