Recensione di "Semina il vento" di Alessandro Perissinotto, Edizioni Piemme
"Braccio 6, nel reparto di massima sicurezza di un carcere del Nord Italia. Sulle labbra, la dichiarazione di innocenza; tra le mani, il giornale che ritrae in prima pagina il corpo senza vita di sua moglie. Su consiglio del proprio avvocato, Giacomo decide di raccontare la propria vicenda, l'inevitabile serie di eventi che lo ha condotto in quella cella. E così torna all'epoca in cui, per riuscire a sopravvivere a Parigi, alternava il lavoro di curatore di mostre per bambini, a quello di cameriere. Era in quel periodo che aveva conosciuto Shirin. Non l'aveva trovata subito bella, almeno non nel senso consueto del termine; era stato attratto piuttosto dalla storia che i suoi occhi sembravano celare, da quel profondo distacco verso chi le stava accanto, come se per lei la vita vera fosse altrove. Ci sono amori che iniziano all'improvviso, con notti memorabili, il loro invece era nato con la lentezza inesorabile delle cose fatte per durare. L'innamoramento, il matrimonio e poi la decisione che avrebbe cambiato le loro vite per sempre: lasciare Parigi per trasferirsi a Molini, sulle montagne piemontesi, nel paese dove lui era nato. Ma nessun luogo è al riparo dal vento dell'odio, dal fanatismo delle religioni, dall'arroganza del potere, dall'intolleranza strisciante. Così il paradiso aveva cominciato a scivolare verso l'inferno, prima piano, poi sempre più rapidamente, fino ad arrestarsi lì, in quella cella, con il tormento del ricordo d'un amore reso perfetto dalla morte."
Con uno stile chiaro l’autore tratta un tema molto delicato. Mostra una città e i suoi abitanti così operosi e uniti nel promuovere idee razziste. Lo fa in maniera esemplare perché scevro da giudizi. Con eleganza e cura, Perissinotto affonda la penna per portare a galla l’ostilità e l’odio verso chi “non è come noi”, verso l’estraneo, quello che viene considerato l’intruso, quello che dovrebbe tornare “a casa sua”.
Il ritmo narrativo, per tutta la durata del romanzo, è in una tensione crescente, mentre risulta lenta la narrazione. Ciò può risultare fastidioso ma in realtà è necessario per fare in modo che il lettore comprenda la storia di Shirin, la straniera, quella che sicuramente prima o poi sbaglierà.
Shirin è forte, è brava, talmente brava che riesce a controllare la rabbia.
«Così brava ad esprimere tenerezza con le parole, Shirin era, al contrario, totalmente incapace di tirar fuori la rabbia. La collera le si cristallizzava nell’iride e cresceva dentro».
L’esclusione dell’altro, il cercare sempre il difetto nell’altro, travolgerà anche Giacomo, il marito di Shirin. Il loro matrimonio incomincerà a vacillare. Il giudizio altrui prenderà il sopravvento mettendolo al tappetto.
«Tra due persone, anche i silenzi posseggono sfumature di senso. Avevamo conosciuto i silenzi degli innamorati e entrambi sapevamo che quello che calava tra noi non lo era… L’amore non era scomparso, ma né io né lei avevamo voglia di cercare, schiacciati com’eravamo dal peso delle scelte sbagliate.»
Un romanzo che fa riflettere su quanto sia dannoso il giudizio degli altri, soprattutto quando è basato sull’ottusità, sulla chiusura mentale e sull’ignoranza.
Le scelte narrative dell’autore risultano essere originali e, soprattutto, utili per non far calare mai l’attenzione del lettore.