Recensione de "Il mio paese inventato" di Isabel Allende, Giangiacomo Feltrinelli Editore
Il romanzo non ha una trama ben definita. È un diario, sono pagine di ricordi che la Allende scrive con cura e amore. Sono pagine cariche di nostalgia. La Allende ci racconta gli anni della sua infanzia, del suo amore per il nonno, della sua formazione, educazione, del colpo di Stato, della dittatura, dell'esilio. Racconta dei suoi affetti, di tutti i suoi amori, dei suoi figli.
Narra di un paese “inventato” perché costruito e basato suoi ricordi. È fortemente orgogliosa del suo paese, del suo Cile, della sua gente, torturata e violentata.
Narra di un paese “inventato” perché costruito e basato suoi ricordi. È fortemente orgogliosa del suo paese, del suo Cile, della sua gente, torturata e violentata.
“Scrissi per sfogare la mia angoscia... Sono stata forestiera per quasi tutta la vita, condizione che accetto perché non posso fare altrimenti. Diverse volte sono stata costretta a partire, sciogliendo legami e lasciandomi tutto alle spalle, per cominciare da zero in un altro posto; ho vagato per più luoghi di quanti possa ricordare. A forza di dire addio mi si sono seccate le radici e ho dovuto generarne altre che, in mancanza di un terreno in cui fissarsi, mi si sono piantate nella memoria; ma attenzione, la memoria è un labirinto dove i minotauri sono in agguato...”
La sue capacità narrative e descrittive, la dolcezza con cui descrivere emozioni, gioie e dolori, rendono questo romanzo una lezione di vita, un viaggio dal quale si ritorna cambiati, pentiti di aver spesso costruito muri davanti a noi e di aver dimenticato, fino a quasi non saperlo più fare, il più grande gesto d'amore: il perdono.
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